Legalità della pena e poteri del giudice dell'esecuzione
Negli ultimi anni, il diritto vivente, nel riscrivere le regole che
disciplinano il procedimento esecutivo, ha attribuito, al giudice che
governa la fase, la legittimazione a ripristinare la legalità della
pena, pure in assenza di una espressa previsione normativa che gli
riconosca la funzione. Gli innovativi principi, coniati in materia
dalle Sezioni unite, recepiscono i dicta provenienti dalla Corte di
Strasburgo, la quale colloca la legalità penale nell’alveo dei diritti
fondamentali della persona, non derogabili neppure in tempo di guerra o
di altro pubblico pericolo che minacci la Nazione. Oggi, dunque, il
giudice può intervenire sul trattamento penale – oltre che nei casi
indicati dal codice e in quelli già ammessi dalla giurisprudenza più
remota – quando la sanzione sia divenuta illegale per effetto di una
pronuncia della Consulta che abbia ablato dall’Ordinamento la norma
utilizzata per determinare il debito punitivo; quando sia la stessa
Corte di Strasburgo a ritenere che la pena contrasti con i principi
convenzionali; nonché qualora la illegalità sia dovuta ad un errore
commesso nel giudizio cognitivo. Il presente studio, dunque, partendo
dall’analisi delle vicende storico-processuali che hanno indotto il
Supremo consesso a tali originali affermazioni, mira a chiarire quale
sia la pena illegale emendabile dal giudice dell’esecuzione, per trarne
coerenti regole comuni da applicare in casi non direttamente considerati
dalla giurisprudenza, sebbene riconducibili alla medesima ratio.
L’operazione è necessaria non solo per evitare soluzioni eterogenee
delle prassi giudiziarie di fronte a fattispecie omologhe; ma anche per
rileggere le disposizioni codicistiche che consentono al giudice
dell’esecuzione, sia pur in ipotesi eccezionali, di modificare la pena
comminata con sentenza divenuta irrevocabile.