Stato, grande spazio, nomos
Carl Schmitt - Adelphi, 2015
Molto
tempo prima che venisse coniato il semplicistico termine di
"globalizzazione", Carl Schmitt aveva visto, con lucidità profetica,
come "l'universalismo dell'egemonia anglo-americana" fosse destinato a
cancellare ogni distinzione e pluralità spaziale in un "mondo unitario"
totalmente amministrato dalla tecnica e dalle strategie economiche
transnazionali, e soggetto a una sorta di 'polizia internazionale'. Un
mondo spazialmente neutro, senza partizioni e senza contrasti - dunque
senza politica. Per Schmitt non il migliore, ma il peggiore dei mondi
possibili, sradicato dai suoi fondamenti tellurici. Fedele alla
'justissima tellus', Schmitt persegue invece l'idea che non possa
esservi 'Ordnung' (ordinamento) mondiale senza 'Ortung'
(localizzazione), cioè senza un'adeguata, differenziata suddivisione
dello spazio terrestre. Una suddivisione che superi però l'angustia
territoriale dei vecchi Stati nazionali chiusi, per approdare al
'principio dei grandi spazi': l'unico in grado di creare un nuovo 'jus
gentium', al cui centro ideale dovrebbe tornare a porsi l'antica terra
d'Europa, autentico 'katechon' di fronte all'Anticristo
dell'uniformazione planetaria nel segno di un unico "signore del mondo".
Certo è che la prospettiva di Schmitt, già delineata ottant'anni fa,
appare oggi più attuale che mai, e il suo pensiero si conferma come
essenziale per la lettura della nostra epoca.