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Autori . Claudio Biscaretti di Ruffia, Edoardo Gambaro
Le norme concernenti le società straniere con sede secondaria in Italia sono
state modificate, rispetto a quanto indicato fin dal codice del Commercio del
1882, con la riforma codicistica del 1942. In particolare, la materia ha trovato
la sua disciplina negli artt. 2505-2510 c.c. Gli artt. 2505 e 2509, contenevano
una vera e propria norma di diritto internazionale privato, concernente il
riconoscimento in Italia delle società straniere; altri tre articoli (gli artt.
2506, 2507 e 2508) disciplinavano gli obblighi pubblicitari a carico delle
società costituite all'estero che avevano in Italia una o più sedi secondarie
con rappresentanza stabile e l'ultimo articolo (l'art. 2510) prevedeva che
l'esercizio di determinate attività, da parte di società con interessi
stranieri, potesse essere sottoposto a particolari condizioni da parte di leggi
speciali. Dopo i successivi interventi, attuati con il recepimento di direttive
comunitarie nel 1968, nel 1992 e nel 1995, un ulteriore intervento sulle norme
in esame è stato effettuato con la l.n. 366 del 2001 (delega al Governo per la
riforma del diritto societario). In attuazione di tale delega, il Governo ha poi
emanato il d.lgs. n. 6 del 2003 concernente la riforma organica della disciplina
delle società di capitali e società cooperative, con il quale, nel Capo XI,
dedicato alle società costituite all'estero, è stato inserito il nuovo art.
2507, dedicato ai rapporti delle norme in esame con il diritto comunitario. Il
principio della supremazia del diritto comunitario, nelle materie di sua
competenza non ha bisogno di essere sottolineato con riferimento alle singole
disposizioni. Esso è, infatti, il risultato di una lunga evoluzione della
giurisprudenza costituzionale che si è progressivamente avvicinata, almeno sul
piano delle conclusioni, a quella della Corte di giustizia e, oggi, è confermata
anche dal nuovo art. 117 della Costituzione. Tale ultimo articolo, come è noto,
nel testo introdotto dall¿art. 3 della l. cost. n. 3 del 2001, pone un limite
esplicito all'azione dello Stato e delle Regioni, dato dagli obblighi assunti
dall'Italia con l'adesione all'Unione europea. La dottrina si è divisa
sull'interpretazione da dare alla disposizione costituzionale: taluni autori
infatti hanno ritenuto che l'art. 117 non avrebbe una portata innovativa,
limitandosi a riproporre l'obbligo già ricavabile dall'art. 11 della
Costituzione. Altri, invece, ritengono che la norma in esame abbia inserito
nella Costituzione una vera e propria European clause, così come avvenuto in
altri paesi europei, che avrebbe profondamento modificato il quadro dei rapporti
tra il diritto interno e il diritto dell'Unione europea. Quale che sia
l'effettiva portata dell'art. 117 Cost., non vi è dubbio che la cosiddetta «
pregiudiziale comunitaria » sia destinata ad influenzare fortemente
l'interpretazione degli stessi. Ma vi è un ulteriore elemento da prendere in
considerazione nell'analisi degli articoli del Capo XI: la loro caratteristica
di norme di applicazione necessaria, ai sensi dell'art. 17, l. n. 218 del 1995.
Esse, infatti, hanno quella caratteristica di «autolimitazione», cioè di
individuare esse stesse il loro ambito di applicazione, che è stata individuata
dalla dottrina, prima ancora che dalla giurisprudenza, per definire in tale
categoria. Ciò detto, va però aggiunto che le norme qui in esame, così come le
norme di applicazione necessaria degli altri Stati membri, non si sottraggono al
rispetto delle disposizioni previste nei trattati comunitari. Esse, pertanto,
possono operare soltanto nei limiti ristretti in cui sia possibile configurare
delle eccezioni rispetto alle prescrizioni sulle libertà fondamentali previste
in tali trattati.