A prescindere dai suoi esiti, il processo penale può generare per chi ne
è il protagonista una serie di conseguenze pregiudizievoli. Le
dinamiche che esso sottende originano, in certi casi, un sacrificio
capace persino di snaturare le funzioni dell’accertamento,
trasformandolo da strumento per l’applicazione della sanzione in
elemento, esso stesso, afflittivo. Nel quadro dei “danni da attività
giudiziaria” – riconducibili al noto paradigma del “processo come pena” –
si inscrivono le spese sostenute dall’accusato per la propria difesa
tecnica. Rese più onerose dalla durata e dalla struttura del rito
penale, tali spese rimangono a carico della persona sottoposta al
procedimento, anche qualora risulti innocente. Possono essere coperte,
in alcune ipotesi, dagli “antagonisti” privati dell’assolto, senza che
tuttavia in favore di quest’ultimo sia contemplato un intervento
pubblico in chiave “riparatoria”. Ne deriva una contraddizione che
non può essere risolta sul piano del patrocinio a spese dello Stato,
necessariamente riferito a un ambito circoscritto. Andrebbe, invece,
affrontata alla luce di diversi canoni costituzionali, tra i quali
spicca il principio di solidarietà. Il peso economico del processo, per
molti versi inevitabile, in caso di proscioglimento dovrebbe, infatti,
essere distribuito anche parzialmente sulla collettività. Una lacuna
del nostro ordinamento, evidenziata negli ultimi anni da un crescente
dibattito, può essere colmata traendo spunto dalle scelte normative
adottate in vari Paesi, dove sono regolati strumenti di rifusione delle
spese ad opera dello Stato. Il confronto con la disciplina di altri
sistemi processuali, in particolare quelli tedesco e austriaco, si
rivela prezioso per assumere maggiore consapevolezza del problema e
prospettarne de iure condendo possibili soluzioni.