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Il tema delle categorie non appartiene all'autonoma riflessione dei giuristi.
Essi se ne valgono, ma ne ignorano i meccanismi formali, la struttura
concettuale; di fatto però il giurista pratico utilizza le categorie come
strumento operativo, al pari del bisturi per il chirurgo, giacché esse si
offrono alla sua analisi come dati oggettivi, caselle classificatorie. Tale
atteggiamento non ha impedito processi evolutivi significativi: ripercorrere la
storia della civilistica italiana nella seconda metà del secolo scorso significa
cogliere una sostanziale rivoluzione nei risultati applicativi, riconoscendo
tutele che un tempo sarebbero state impensabili, ma tuttavia sempre all'interno
di radicati paradigmi concettuali, o meglio entro il limite di elasticità delle
vecchie categorie classificatorie. Sì è venuta a determinare così una sorta di
confusione delle lingue. Le tradizionali categorie continuano a essere
richiamate quali vuoti indici lessicali, all'interno dei quali possono convivere
modelli diversi e per l'effetto diversi esiti operativi. Così si parla, ad
esempio, di primo, secondo o terzo contratto, perdendo di vista l'originaria
idea di una libertà del consenso, i cui esiti non era consentito al giudice di
sindacare (salvo casi estremi). In tale difficile stagione, sempre più forte è
l'esigenza di rompere le sedimentazioni discendenti da vecchie cristallizzazioni
concettuali, per rideterminare un minimo comune denominatore di linguaggio e
ripensare il modo in cui vengono utilizzate le più classiche categorie del
diritto civile. L'opera nasce proprio con l'intento di mettere in discussione
tali categorie (soggetto, beni, atto di autonomia, responsabilità), onde
evidenziare un radicale mutamento di prospettiva: il diritto non è più una
costruzione che nasce dall'alto, ma semmai dal basso dei luoghi in cui i
conflitti sociali si consumano e trovano composizione, ovvero in difficili
mediazioni socio-economiche, o ancora nel delicato crogiolo del giudizio.